Un pesce nero emerge dall’oscurità, elegante e preciso nelle sue forme, eppure estraneo alla natura. Il suo corpo non è fatto di squame, ma di plastica. La sua pelle non riflette la luce dell’acqua, ma la lucidità inquietante del catrame. Non è più un essere marino, ma un relitto vivente, una creatura nata dagli scarti umani, dal mare inquinato, dalla trasformazione silenziosa dell’oceano.
L’equilibrio della composizione e l’accuratezza dell’assemblaggio danno vita a un’opera visivamente potente e raffinata, dove ogni frammento di plastica trova il suo posto, costruendo un pesce credibile e al tempo stesso impossibile.
La plastica nera e lucida evoca il petrolio, il catrame, un mare contaminato in cui la vita si confonde con i rifiuti.
Il pesce appare dinamico, quasi in movimento, eppure sembra nuotare in un’acqua densa, pesante, senza via di fuga.
I dettagli delle plastiche ricordano una creatura tecnologica, un essere meccanico più che organico: il mare non lo ha solo inghiottito, lo ha ricreato.
La sua presenza è forte, scultorea, ma porta con sé un dubbio inquietante: questo è il mare di oggi o è il mare di domani?
“Black Fish” non ha bisogno di interpretazioni complesse. È un’immagine diretta, efficace, immediata: un pesce che è insieme bellezza e tragedia, armonia e avvertimento. La sua eleganza non è naturale, è il risultato dell’umanità che trasforma e contamina.
