
Una mattina d’estate del 2019, durante una passeggiata in spiaggia, raccolsi un gruppo di piccoli frammenti di plastica colorata depositati dal mare. Erano scarti, rifiuti, ma visti nell’insieme mi ispirarono un’idea: perché non assemblarli e trasformarli in qualcosa di nuovo?
In quel periodo, dopo cena, ero solito passare qualche ora a dipingere con colori acrilici. L’idea di mischiare colori e plastiche fu naturale.
Tornato a casa, iniziai la ricerca su come poterli fissare su un supporto. Dopo aver trovato la soluzione nella resina epossidica bicomponente, arrivò il momento di agire.
Il primo lavoro nacque senza disegni preparatori, senza un progetto definito. I frammenti vennero posizionati direttamente sul supporto, uno dopo l’altro, seguendo una logica che si costruiva da sé. Volevo realizzare qualcosa di semplice, visto che si trattava di un esperimento. Alla fine, creai un volto, con un’espressione tra lo stupore e il disorientamento. Un autoritratto spontaneo, nato dal caso e dall’intuizione.
Ma soprattutto, nacque un metodo. L’unione tra improvvisazione e struttura, tra un’idea iniziale e l’adattamento ai materiali disponibili, divenne il filo conduttore di tutte le opere successive.
Quel primo quadro segnò l’inizio di un percorso. Da quel momento, raccogliere plastica in spiaggia – cosa che già facevo da anni per conferirla in discarica – non fu più solo un gesto casuale, ma divenne parte integrante del processo creativo. Ogni pezzo aveva una sua forma, un suo colore, e veniva integrato nell’opera senza un rigido schema prestabilito.
L’approccio è rimasto sempre lo stesso: l’idea di base è chiara, ma l’assemblaggio avviene in modo istintivo, lasciando che i materiali suggeriscano la composizione. Un mix tra controllo e improvvisazione, tra idea e caso.
Solo in un secondo momento pensai di unire questa attività creativa alla sensibilizzazione ambientale.